Rassegna stampa – Una pensione sostenibile

Una pensione sostenibile, di Alessandro De Nicola (La Repubblica, 16/01/2018)

 

Tra la ridda di proclami di questa campagna elettorale uno dei più indefiniti, persistenti e perniciosi è quello che promette di spazzare via la legge Fornero, vale a dire la riforma pensionistica introdotta nel 2011 dal governo Monti, i cui pilastri sono l’adeguamento dell’età pensionabile all’andamento dell’aspettativa di vita e la generalizzazione del sistema contributivo (si riceve in proporzione a quanto si è versato). Come la si intenda sostituire e con quali effetti sui conti pubblici non è dato sapere: si mormora di una fantomatica quota 100 che consentirebbe di ritirarsi a 60 anni con 40 di contributi, ma poco altro.

Ebbene, forse è meglio andare con ordine. Prima di tutto come è la situazione italiana sul fronte previdenziale? Non buona. Anche dopo la riforma del 2011, il Belpaese è tra gli Stati Ocse (l’organizzazione dei paesi ricchi) quello che spende di più in pensioni in proporzione al Pil, il 15,5%, il doppio della media. Poiché ogni tanto qualcuno obietta che i pensionati italiani pagano le tasse su quanto ricevono mentre in qualche altro posto ciò non accade, l’Ocse si è preso la briga di calcolare l’incidenza sul Pil al netto del prelievo fiscale: siamo sempre i primi. Peraltro, fino al 2045, tale percentuale è destinata ad aumentare per effetto dell’invecchiamento dei baby boomers. Solo da quell’anno in avanti le proiezioni parlano di una progressiva diminuzione, ma far calcoli precisi dopo quella data è arduo e, come avrebbe detto Keynes, nel lungo periodo saremo tutti morti. Per chi pensa che convenga comunque aumentare gli assegni pensionistici, perché tanto è tutto Pil che si aggiunge, è semplice notare che il deficit conseguente significa futuri aumenti di tasse e di interessi sul debito, con tanti saluti al Pil.

E come se la cavano i pensionati? L’età media effettiva di pensionamento è in Italia ancora tra le più basse dell’Ocse, 62,1 anni per gli uomini e 61,3 per le donne (nelle altre nazioni è tra i 65 e i 66 anni). Invero, benché un certo allarmismo dilaghi, chi in Italia si ritirerà dopo una vita lavorativa completa beneficerà in media di una percentuale molto alta dello stipendio, l’81,3% contro il 53% dei paesi Ocse (dove la previdenza privata complementare ha più peso). Inoltre, il pensionato italiano gode di una situazione ottima (solo in Spagna e Francia è migliore) quanto al confronto con il reddito medio del resto della popolazione attiva: guadagna quasi il 100%. La flessibilità in uscita, d’altronde, è giudicata dall’Ocse elevata rispetto agli altri, grazie all’Ape, senza contare che, nonostante il contributivo, i redditi più bassi o alcune categorie di lavoratori godono di benefici integrativi tipo la 14ma mensilità o l’Ape social recentemente introdotti.

  

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